La recensione di “Pain” – A che punto della sua crescita si trova Vale Pain?

La recensione di “Pain”, il terzo disco di Vale Pain, uscito il 14 ottobre per Atlantic/Warner Music Italy.

Pochi mesi fa, nel mezzo dell’analisi delle prestazioni del Seven 7oo mixtape, Vale Pain veniva incensato con le seguenti parole di elogio, che lo elevavano rispetto ai colleghi della sua stessa crew:

Vale Pain è, tendenzialmente, un rapper che o si ama o si odia, ma ha uno stile quadrato, definito e, per la sua età, anche piuttosto maturo. È super versatile: riesce a vestire i panni del rapper tamarro spacca-tutto di Gangsta ma anche gli abiti della malinconia, come in Sabbie Mobili, Amico Mio (Freebene) Sky. Nessuna sorpresa per chi lo segue dagli EP 2020 YoungstarVale è forte, rappa bene, ha una penna particolare ma di grande qualità ed è, soprattutto, abilissimo a destreggiarsi in melodie e ritornelli illuminanti.

Il punto è che il rapper italo-peruviano, rispetto ai suoi coetanei, rappresenta un trait d’union fra la sua generazione, influenzata dalle sonorità di artisti drill e trap come Central Cee, Lil Baby e Pop Smoke, e quella precedente, in cui la scrittura rappresentava un caposaldo del genere. Vale Pain, infatti, non ha mai nascosto un’ammirazione sconfinata nei confronti di figure storiche del rap milanese come Guè ed Emis Killa, omaggiandoli addirittura con citazioni, come in Agosto in cui riprendeva delle barre di Neve e fango.

Per questo, rispetto a Rondo, Sacky, Keta e, allargando il raggio, VillaBanks, Rhove, thasup e Anna, Vale Pain rappresenta un modello di rapper leggermente più classico: moderno nel sound, ma attento alla scrittura e alle punchlines e naturalmente portato a uno stile più conscious, rispettoso del passato. Con i suoi lavori, nel tempo, ha dimostrato di non essere un rivoluzionario, ma un artista estremamente genuino, affamato e innamorato del suo genere musicale. Forse, è proprio per questo che la sua musica risulta di gran lunga più digeribile dal grande pubblico rispetto ai suoi coetanei, riuscendo così ad attrarre un target più ampio ed eterogeneo.

Inoltre, la carriera di Vale Pain, a soli vent’anni, può già vantare la bellezza (escluso Pain) di tre progetti discografici, segno di passione e di produttività costante e priva di interruzioni. Se però Goleador, il suo primo album auto-prodotto, suona molto acerbo, i successivi 2020 e Youngstar EP risultano ben più godibili ed evidenziano anche una crescita graduale di consapevolezza artistica. Step by step, infatti, i suoi progetti hanno iniziato a non suonare più come compilation di brani auto-celebrativi e spacconi, coerenti con la tradizione del rapper zanza milanese portata avanti da rapper come Guè, Jake La Furia, Emis Killa e Lazza, ma come veri e propri confessionali del loro autore, grazie a brani come Attraverso la tempesta e Sogni.

Il quarto progetto discografico della carriera di Vale Pain, però, doveva dimostrare l’ingresso del rapper in una fase di maturità: doveva essere il primo vero caposaldo della sua identità artistica. È uscito il 14 ottobre, si intitola Pain e punta in una direzione chiarissima: lasciare pochissimo spazio ai banger e al gangsta-rap tipico di Seven 7oo in funzione di tracce conscious, fatte di riflessioni tristi e malinconiche, oltre che di vere e proprie ferite su pelle, come quella illustrata nella cover del progetto.

Nell’intro/title-track del disco Vale rappa: “Pain leggilo sulla collana“, ma ciò che non dice è che bisognerebbe leggere “Pain” anche sulla sua pelle, perché questo progetto non poteva avere un titolo più azzeccato. È Pain perché Pain è il suo autore (il rapper all’anagrafe si chiama Valerio Paini e ha soltanto dovuto storpiare il suo nome per ottenere un nome d’arte d’impatto) ed è Pain perché pain significa dolore in inglese. Questo è senza dubbio un album che nasce dal dolore e che vive di dolore nella sua totalità.

In realtà, procedendo con ordine, bisogna dire che Pain è stato anticipato da un singolo che condivide solo in parte l’emotività maledetta del progetto: la hit d’amore disilluso Te Quiero, che ha garantito a Vale numeri molto significativi (con 13 milioni di streaming, oggi si tratta del terzo brano più ascoltato della sua discografia, secondo solo a Cali e Louboutin). Te Quiero è una hit, che trova la sua forza in una delle principali skill del suo autore: l’attitudine alla melodia, fondamentale per l’intero disco. Infatti, se il beat di Nko è davvero di grande spessore, fra un giro di violino elegante e una batteria drill possente, il ritornello di Vale è brillantissimo, perfetto per incastrarsi nella mente dell’ascoltatore. Anche il testo del brano, inoltre, mostra una buona qualità di scrittura e tanta personalità, nonostante qualche cliché del rap ultra-moderno da cui bisogna staccarsi per crescere (riferimenti costanti ad armi e a un immaginario gangsta di dubbio gusto).

Questa stessa analisi può essere estesa praticamente all’intero Pain: un progetto con ottime melodie e ritornelli catchy, strumentali moderne e di qualità e una discreta scrittura, qualche volta un po’ acerba e ancorata a dei cliché. Tuttavia, Te Quiero è certamente la hit del CD, ma allo stesso tempo è un brano che si inserisce nella tradizione di hit romantiche di Vale come Cali e Agosto, piuttosto che in quella di Attraverso la tempesta e Sogni.

Pain, di fatto, è un disco che approfondisce di più questa seconda tradizione, pur non disdegnando episodi romantici o banger spacconi come l’intro, la brillante traccia drill X e Micheal Jackson, che inseguono invece quella terza “famiglia di brani” a cui appartengono le varie Shotta, OMG, Youngstar, Shotta II, Gangsta e ovviamente Louboutin.

Sebbene la maggior parte del disco sia conscious, la scelta di garantire respiro a Pain attraverso banger e hit romantiche è giusta e, soprattutto, evidenzia ancora una volta la versatilità del rapper italo-peruviano. Inoltre, un altro punto chiave del progetto è la decisione di non ospitare featuring, una vera prova di coraggio e una dimostrazione di voler davvero puntare al cuore degli ascoltatori, piuttosto che ai loro streaming.

Fondamentalmente, Vale Pain ha messo a segno un buon album, qualitativamente migliore rispetto ai suoi progetti precedenti e superiore, mediamente parlando, rispetto a quasi tutti i suoi coetanei.

Pochi rapper di vent’anni, oggi, sono in grado di dare vita a un disco con canzoni come I miei panni, Penso, Codeina e Hash, Till I Die e 3D, tracce maledette in cui si entra nel confessionale dell’autore, fra difficoltà a fidarsi degli amici (indicativa la barra “ho più scarpe che amici e già questo ti dice molto) e delle donne, il racconto della soffertissima assenza di un padre venuto a mancare troppo presto, una vena depressiva e autolesionista estremamente correlata alle droghe, l’insoddisfazione che non passa neanche con il successo economico, paranoie e dubbi costanti.

La scrittura, complessivamente, è di buona qualità (tocca il suo picco con la struggente dedica alla sorella nella traccia Orfanelli) e raggiunge emotivamente l’ascoltatore anche grazie al sontuoso pavimento strumentale a opera di Nko, Young Miles, 2nd Roof, ShoBeatz e Midas, Manny Troublez, Ninety8 x John Luther, davvero eccellente (al contrario di mix e master, di livello piuttosto carenti). In aggiunta, si tratta di un progetto coerente, senza filler, con diversi ritornelli brillanti, belle melodie e soprattutto idee molto chiare. Vale Pain sapeva decisamente quale fosse la direzione che voleva intraprendere e ha centrato il bersaglio in pieno.

Di contro, però, vale la pena analizzare anche ciò che, in Pain, ha funzionato meno e ci si riferisce prevalentemente a due punti: la ancora troppo carente tecnica di canto dell’artista e il poco peso specifico delle sue canzoni.

  1. Partendo dal primo punto, bisogna dire che Vale Pain, se vuole insistere con questo approccio melodico, deve compiere un netto salto di qualità nel canto. Non è il solo: anche rapper come Shiva e Rondo spesso vanno in difficoltà di fronte ad alcuni ritornelli. La soluzione è studiare ed esercitarsi, come per una competizione sportiva, ed esercitare flow e delivery, che hanno ancora ampi margini di miglioramento.
  2. Passando poi al secondo difetto di Pain, c’è da dire che, nella sua uniformità e nella sua pregevole fattura di disco privo di filler, vengono fuori poche tracce dal peso specifico superiore alla media, in pratica la sola Te Quiero. Rompere gli schemi certe volte serve, per realizzare brani istant classic, e mettere a segno pezzi del genere (come possono esserlo Brivido di Guè e Marra, Il mondo dei grandi di Emis Killa o Davide di Gemitaiz) significa lasciare la propria impronta nella storia del rap italiano. I featuring, in questo senso, possono aiutare molto.

In conclusione, però, non si può che lodare Vale Pain per un album ben riuscito e che – come detto – è attualmente il migliore della sua discografia ed è superiore ai CD/EP della maggior parte dei suoi colleghi coetanei. I margini di miglioramento ci sono, e dai suoi prossimi progetti ci si aspetta che si dia continuità all’intimità, alle cicatrici e all’approccio conscious di Pain, migliorando tecnicamente e nella gestione di un progetto solista.

In ogni caso, Vale Pain è certamente uno dei rapper più maturi e completi della nuova scuola: da Goleador a Pain, la sua crescita è talmente evidente, nella sua gradualità, da far sperare a un futuro radioso per lui. Se continuerà a lavorare così bene, potrà certamente ritagliarsi un ruolo di rilievo nella scena rap italiana.

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