La recensione di “Dove Volano Le Aquila”, il quinto disco di Luchè, uscito l’1 aprile 2022 per Sony Music.

È il 29 giugno 2018 quando Luchè pubblicava un album, Potere, destinato a scuotere la scena musicale italiana come un terremoto. Fino a quel momento, il rapper napoletano era visto dal pubblico e dalla critica come una figura storica del rap italiano, ma dal peso specifico certamente limitato, soprattutto perché il suo percorso solista (post-Co’Sang) aveva visto dei picchi qualitativi solo negli ultimi anni, con la pubblicazione di un poetico CD, Malammore, e con delle strofe killer nei dischi dei colleghi: Casa Mia, Te lo dicevo, XDVRMX e Oro Giallo su tutte.
In ogni caso, il pubblico in quel 29 giugno 2018 non era certamente focalizzato su Luchè, ma anzi: in realtà stava sperando nell’uscita a sorpresa del nuovo disco di Salmo, che arriverà quattro mesi dopo e si chiamerà Playlist. Quel che è certo, tuttavia, è che chiunque, quella sera o in un momento successivo, abbia ascoltato Potere, sia rimasto stregato da un vero e proprio capolavoro e si sia innamorato del carisma e della visione di Luchè, un Artista con la A maiuscola e una Personalità con la P maiuscola. Nell’album si respirava qualità e innovazione sonora, idee chiarissime e testi sublimi, sia che si trattasse di canzoni d’amore meravigliose come Non abbiamo età, Dormiamo insieme e Gli Altri – non esiste un autore rap romantico in Italia anche solo paragonabile per qualità a Luchè – sia che si trattasse delle cosiddette “tracce-status”, come Potere / Il sorpasso, il doppio-brano chiave del progetto. Nel pezzo, Luchè vomitava le emozioni di una carriera di guerre e difficoltà con un’intelligenza violenta ma lucidissima, dissando (ma forse sarebbe meglio dire “uccidendo liricamente”) i suoi avversari, imponendo le sue idee ed esternando la sua forza clamorosa.
Da lì in poi, per la prima volta nella difficile carriera del rapper di Napoli, la strada è stata in discesa e le sue mosse, artistiche e contemporaneamente strategiche, sono state perfette:
- ha preso sotto la sua ala i ragazzi più promettenti della scuola napoletana, costruendo un impero di cavalieri pronti a scendere in guerra per lui e a dimostrare la sua smisurata influenza artistica e comportamentale. Oltre al suo fedelissimo CoCo, infatti, Geolier, MV Killa, Vale Lambo e Lele Blade sono entrati nel suo collettivo-etichetta BMF.
- ha continuato, negli anni successivi, a mettere a segno strofe capolavoro nei featuring, sia che si trattasse di aprire il cuore su beat, come nella assolutamente straordinaria Attraverso Me, sia che si trattasse di seminare il panico nei banger, come in Modalità Aereo, Denim Giappo, Sport e Iside.
- ha pubblicato una repack di Potere, estremamente rispettosa del capolavoro originale, accompagnata da un libro da brividi che spiegava al pubblico ogni singolo step che lo ha portato a essere il Luchè del 2022.
- ha attuato, tramite numerose interviste, una comunicazione fatta di dichiarazioni forti, spesso scomode, ma sempre sincere e argomentate con l’intelligenza di un uomo che ha vissuto, perdendo e vincendo, e dunque ha una visione estremamente chiara di cosa vuole nella vita.
È molto importante sottolineare, però, che quando si parla di “strategie”, nella carriera di Luchè, non bisogna immaginarlo come un tiranno machiavellico, ma piuttosto come un uomo profondamente sensibile ed emotivo, come un leader dai valori saldi ed estremamente radicati e come un rapper per cui la parola artista sembra davvero calzare a pennello. Anche quando si è trovato al centro dell’attenzione per le sue liti furibonde con artisti come Clementino, Salmo e Capo Plaza, l’impressione era, sì, quella di un artista estremamente provocatorio, orgoglioso e egocentrico (si parla pur sempre di un artista che si è auto-proclamato Re di Napoli e si è paragonato per importanza a Pino Daniele e a Massimo Troisi), ma anche e soprattutto di una persona pronta a mettersi in gioco e rischiare tutto per le sue idee e i suoi ideali. È questo, probabilmente, il motivo per cui qualsiasi ascoltatore di Luchè non può che considerarlo un ispirazione e un autentico mito: le sue azioni e i suoi dischi raccontano coraggio, visione, passionalità, forza e sensibilità, ma soprattutto volontà di mettersi sempre in gioco e vincere. Non a caso, il suo disco più importante si intitola Potere.
A quattro anni da Potere, un tempo lunghissimo per le dinamiche del mercato digitale, è finalmente arrivato il quinto album di Luchè, il primo pubblicato davvero con lo status di leggenda: Dove Volano Le Aquile. Il disco è stato preceduto da una campagna di comunicazione lunghissima e, per certi versi, estenuante, fatta di continui rimandi in virtù di sperimentazione e cambiamenti, culminata con il cambio di etichetta in extremis. Il rapper napoletano, infatti, è passato da Universal a Sony in maniera rumorosa e, come da sua abitudine, estremamente polemica, al punto da rilasciare delle dichiarazioni molto pesanti a GQ a proposito dell’etichetta che lo aveva accompagnato nel biennio più luminoso della sua carriera, come le seguenti:
Credo molto nella mia visione, l’amarezza nasce quando non noti da chi lavora con te il trattamento che credi di meritare
Non essendo di Milano, avendo un background diverso, più difficile, sento di aver bisogno di un sostegno diverso, che finora credo di non aver avuto
Credo che la mia carriera sarebbe stata leggermente diversa se si fossero accesi riflettori diversi su alcune qualità che ho che ritengo siano passate totalmente inosservate
e su Instagram:
L’industria discografica è veramente squallida, discografici che di cognome dovrebbero fare serpente, puntano a fare i potenti della musica italiana, giocando con quella che per noi non è solo carriera, ma vita. […] Troppi giochi di potere, featuring annullati solo per fare sfregi alla concorrenza, favoritismi e tanta tanta incompetenza.
Nella stessa intervista per GQ, ricchissima di spunti e anche – perché no – di controversie, Luchè attributiva alla critica un ruolo importante e di responsabilità, di oneri e onori, affermando:
Quello che mi manca è il ruolo della critica, nella mia carriera non ha avuto nessun peso. Non c’è mai stato “quell’arbitro” che ha sottolineato quanto le cose che faccio siano giuste, diverse. Nessuno ha mai detto “forse Luchè è la cosa più simile al mercato internazionale che abbiamo in Italia”. Nessuno ha mai parlato del mio sound. Anche se non so suonare, ho un gusto che fa sì che i miei dischi suonino in un certo modo. […] Voglio recensioni di chi ne capisce, voglio che l’engagement delle pagine di Instagram che parlano del mio genere, derivi dalla brillantezza delle loro parole, non dal fatto che chiedano ai fan “Cosa ne pensate?”. Nessuno si prende più la responsabilità, delegano tutto agli altri. Ma se il parere dell’ultimo account sui social vale quanto il tuo che in teoria dovresti mediare, perché fai quello che fai? Io mi sento molto solo, da questo deriva la mia frustrazione. Io ho voglia di confrontarmi, di crescere, ma davanti a me trovo solo un deserto.
È difficile comprendere quali siano i criteri di Luchè per capire “chi ne capisce”, ma quel che è certo è che in quest’articolo ci si prenderà le responsabilità che attribuisce alla critica: questa è la recensione di Dove Volano Le Aquile.
Innanzitutto, bisogna cominciare da un paio di numeri estremamente significativi: Luchè ha proposto un disco lungo un’ora e due minuti per sedici brani, in piena coerenza con la struttura, praticamente identica, di Potere e Malammore (quest’ultimo in realtà era addirittura più duraturo). È una scelta da cui bisogna necessariamente partire perché non esistono in Italia così lunghi: non lì realizza nessuno. Né Marracash né Guè né tantomeno Fabri Fibra hanno rilasciato, nell’ultimo decennio, un disco senza repack superiore all’ora di musica. È un ottimo punto di partenza per inquadrare DVLA.
Non stupisce che il nuovo album di Luchè sia stato al centro di polemiche discografiche, perché è un disco di coraggio, di ambizione e di scelte innovative, come la splendida apertura di album di Elisa. Qualche opinionista particolarmente critico, forse, potrebbe definirlo un disco di follia, di spericolatezza e addirittura di arroganza, mentre qualcun altro più entusiasta potrebbe usare le espressioni “disco di avanguardia”, “disco visionario” e “disco illuminato”, le stesse che si usano per raccontare, tendenzialmente, gli album di Marracash, su tutti Persona e Noi, loro, gli altri.
Entrambe le definizioni sono giuste: Luchè ha deliberatamente scelto di proporre un disco diverso, non canonico e anti-convenzionale, del tutto unico e questo – va detto da subito – è al contempo il suo principale punto di forza e di criticità, sotto tutti i punti di vista. Potere era un disco molto sperimentale, con tracce dalla struttura irregolare come Nada, Diamanti nei denti e soprattutto Potere / Il Sorpasso, dalla scrittura spesso sofisticata e dal sound notevolmente raffinato. Tuttavia, DVLA si spinge molto oltre rispetto al suo precedente: è un album estremo, dai toni epici e colossali, e che rifiuta quasi schifato la scelta semplice, la prevedibilità e la ripetizione, in termini di lyrics, flow, beat e soprattutto scelte strutturali. Non ci sono le chitarre catchy di Torna da me e Che Dio mi benedica e nemmeno la scrittura diretta e schietta di Non Abbiamo Età e Parliamo né tantomeno il ritornello banger alla Stamm Fort o il pezzo fatto apposta “per uccidere” come Facile, Bello e Al mio fianco.
Era impossibile immaginare una risposta positiva all’unanimità da parte del pubblico e un uomo (ancora prima che un artista) intelligente e onesto intellettualmente come Luchè ne era perfettamente consapevole. Quindi bisogna dirlo: il coraggio del rapper napoletano è da ammirare e da esaltare, perché Dove Volano Le Aquile è un album davvero irripetibile, che farà in un certo modo scuola e che non è assimilabile a qualsiasi altro CD italiano.
Certo, si tratta di un progetto talmente particolare che il suo stesso suo autore ha dovuto rimarcare come vada assimilato nel lungo periodo, respirato live e ascoltato con un orecchio diverso dal resto dei prodotti della scena musicale. DVLA, infatti, ha polarizzato il dibattito e diviso l’opinione musicale pubblica come poche volte prima d’ora nella storia del rap italiano, fra chi grida al capolavoro e al genio artistico e chi invece critica aspramente il disco, per le ragioni più disparate. La domanda a cui questa recensione vuole dare una risposta, allora, è proprio questa: basta spingersi oltre ogni limite a realizzare un album capolavoro?
Fin qui, infatti, si sono presi in esame solo aspetti estremamente positivi del progetto di Luchè, addirittura entusiasmanti, ma purtroppo ci sono diverse criticità da riconoscere oggettivamente.
Per individuarle, bisogna partire dalla netta somiglianza fra l’inizio di Potere e quello di DVLA, con le equivalenze Intro/D10S e Potere/Il Sorpasso-Slang. Slang è un pezzo colossale, la cui doppia strofa rappresenta, per scrittura e dinamismo, una dimostrazione di forza muscolare ed energica clamorosa. Allo stesso tempo, però, le punchlines di Luchè non raggiungono quelle del brano di Potere e, nel corso del disco, le sue rime non lo faranno quasi mai. DVLA è, tecnicamente, inferiore a Potere: risulta meno ispirato, meno esplosivo e meno passionale.
Non è questo il difetto: Luchè, infatti, ha anticipato il problema, evitando intelligentemente il rischio di proporre un album-brutta copia di Potere, puntando su una scrittura criptica e a tratti mistica, meno ordinata e più “di flusso”, e su contenuti meno romantici e più introspettivi. Probabilmente, l’artista di Marianella ha scelto un approccio di scrittura strutturalmente diverso rispetto al passato e si è affidato, appunto, al flusso di coscienza della sua penna ispirata, della sua visione geniale e della sua creatività magica.
Se questo è ciò che doveva essere, per approccio e contenuti, DVLA, allora è difficile accettare una lunghezza pari a quella di Potere o Malammore. Per essere più chiari: un album con tracce orecchiabili, dirette e dinamiche come Torna da me, Non abbiamo età e in modo diverso Facile (o Che Dio mi benedica, Violento e Bello) è certamente più facile da digerire rispetto a un progetto che si lancia in giri di parole, metafore, cambi di beat, concetti complicati e scrittura cervellotica. Il primo difetto di Dove Volano Le Aquile è che si tratta di un disco oggettivamente molto pesante.
Il secondo punto critico, quello più significativo, va ricollegato a due aggettivi usati precedentemente, complicato e cervellotico, ma bisogna innanzitutto ripetere la grande premessa, ovvero che bisogna essere oggettivamente entusiasti e fieri che un album del genere sia uscito in Italia, e in secondo luogo proporre tre esempi.
Il primo brano da cui bisogna partire è la già citata Le Pietre Non Volano, impreziosita da un bel featuring di Marracash, la cui struttura è la seguente: ritornello-prima strofa di Luchè-ritornello-strofa di Marracash-ritornello-seconda strofa di Luchè-ritornello. Nel ritornello, che è ripetuto, dunque, ben quattro volte nella canzone, il rapper scrive:
Le stelle non finiscono mai (Yeah)
Le rocce fermano i mari (Yeah)
I diamanti fanno ricchi gli umani
Le pietre non volano
e ha dichiarato, nel documentario per Esse Magazine: “Mi piace la metafora del ritornello, che è molto astratto, però per qualche motivo arriva tanto. “Le pietre non volano” parla delle persone comuni. Io dico “le stelle, le rocce, le pietre”, più o meno sono la stessa cosa, sono solo grandezze diverse e ruoli diversi.” Sull’astrattezza del ritornello non v’è davvero alcun dubbio, anzi, bisognerebbe aggiungere che è complesso e, appunto, cervellotico. È una metafora poetica, certamente, ma arriva davvero così tanto? In realtà l’impressione è che sia, per certi versi, fin troppo vaga e arzigogolata, come gran parte delle liriche di DVLA. Forse era il caso, talvolta, di puntare su testi più diretti e dritti al punto, come quelli che avevano fatto grandi Potere? Il cambio di contenuti da album ad album è certamente apprezzabile, ma la sensazione netta è che nel passaggio da una scrittura concreta a una più astratta, Luchè abbia perso una parte della sua grandezza carismatica e caratteriale.
In Ci riuscirò davvero, impreziosita stavolta da un Ernia in forma davvero smagliante, si intravede un ulteriore aspetto centrale dell’evoluzione artistica di Luchè, quella del passaggio da flow dinamici ed energici a strofe cantate più rilassate e melodiose. Basta ascoltare la prima strofa per accorgersi che si tratta di un brano cantato proprio in questo modo, in cui il rapper sceglie volontariamente di rallentare, come farà in gran parte del progetto. Potere era un disco dinamico e di accelerazioni, nei ritornelli e nella strofe, basti pensare a Non abbiamo età, Nada o anche Lv & Balmain. Con l’abbassamento del ritmo nei flow, Luchè ha perso certamente un’ulteriore punta di forza esplosiva, la stessa che aveva reso grandi i suoi featuring pre e post-Potere e il disco stesso.
Slang, terzo esempio di cui vale la pena parlare è, al contrario, un pezzo estremamente energico e si è già parlato delle due poderose strofe, due ceffoni lirici fatti di vera e propria forza bruta. Allora la domanda sorge spontanea: era davvero necessario proporre un doppio ritornello? Il ritornello di Slang, infatti, si divide in un primo momento cantato, cantato in modo rilassato, e in un secondo momento rappato con una formula tipica di Luchè, basata sulla ripetizione costante di una parola chiave (pensate a Facile o a Bello). Se il pezzo doveva essere uno spaccapietre, allora, perché accompagnare un ritornello così efficace e d’impatto con un’apertura cantata che poco ha a vedere con il mood del pezzo? È la prima di una lunga serie di scelte strutturali inutilmente cervellotiche che rendono Dove Volano Le Aquile un disco troppo complesso. Si dice che il troppo stroppia e, in realtà, nel caso di questo progetto, sembra che sia proprio così.
Va detto: i tre esempi mostrano scelte, musicali e strutturali, che caratterizzano e colorano il progetto e la cura maniacale del dettaglio di Luchè fa davvero impressione, rende l’idea della passione estrema che mette nella sua musica. Dove Volano Le Aquile è un pezzo d’anima del suo autore. Queste scelte, infatti, lasciano certamente ammaliato l’ascoltatore e a volte si rivelano vincenti, come, in Over, il campionamento di una traccia della colonna sonora del film Il favoloso mondo di Amélie, la stessa utilizzata nel classico per eccellenza dei Co’Sang, Int’o Rione.
Tuttavia, riconoscendo che la creatività e la visione artistica di Luchè e del suo team hanno portato a un progetto unico per sound, lyrics e struttura, non si può fare a meno di concludere che spesso un pizzico di semplicità in più lo avrebbe reso più d’impatto. Potere non era un disco facile, anzi, era lungo e sperimentale, ma DVLA è, talvolta, troppo estremo e talvolta si perde nei suoi ghirigori e nelle sue cornici articolate. Inoltre, è un progetto, forse, troppo uniforme, che in pochi momenti riesce a stregare l’ascoltatore: mancano i pezzi banger che, a fine ascolto, fanno esclamare: “cavolo ma quella strofa…”, “questo pezzo lo ascolterò per i prossimi sei mesi!” o ancora: “questa è senza dubbio la mia preferita!”
Non bisogna, tuttavia, essere troppo severi con i giudizi perché nessuna traccia del disco, in realtà, risulta sottotono e, anzi, sono presenti delle perle molto luminose, da hall of fame della discografia, come Si Vince Alla Fine, espressione della maturità dell’uomo Luchè, Password, la traccia d’amore vecchio stile, caratterizzata da una seconda strofa irresistibile per tempi di scrittura e ritmiche, e Over, con un duetto in dialetto fra l’artista e il suo fenomenale erede Geolier.
Un’ulteriore considerazione va sviluppata, purtroppo, a proposito della chiusura di album e rappresenta un punto focale su cui Luchè deve necessariamente confermarsi. La fine del disco, rispetto a un’apertura sublime rappresentata da D10S, un omaggio splendido a Diego Armando Maradona, risulta molto raffazzonata. Adios è una cavalcata esplsoiva che non aggiunge né toglie nulla a DVLA se non una tripletta ultratecnica targata Napoli-Milano-Roma. Apprezzabile? Sì, ma forse come chiusura di album sarebbe stato più adatto un brano più poetico.
Per concludere, quindi, che tipo di giudizio conclusivo si può dare di Dove Volano Le Aquile? Si può dire che si tratta di un progetto estremamente affascinante, raffinato, visionario e avanguardistico, dalla stazza kolossal e dal peso specifico mastodontico, che acquisterà valore con il tempo e sarà valorizzato dalle esibizioni live di Luchè. Allo stesso tempo, però, non si possono ignorare difetti quali la sua pesantezza, l’eccessiva complessità di alcune scelte e una mancanza di dinamismo, rispetto al suo precedente, in cui si è persa una gran parte di anima artistica di Luchè.
Tuttavia, proseguendo l’analisi e racchiudendo in un unico concetto tutte queste considerazioni, si può dire che Dove Volano Le Aquile sia un album estremo in tutto e per tutto: è il disco dell’esagerazione ed è scolpito a immagine e somiglianza di Luchè, un artista che ha voluto davvero sfidare il cielo come Icaro e forse, stavolta, si è avvicinato fin troppo al sole.
DVLA, infatti, non sarà probabilmente ricordato come un capolavoro, al contrario di Potere e Malammore, ma potrebbe rappresentare qualcosa di ancora più importante per la musica italiana, un unicum assoluto da cui imparare e a cui ispirarsi. Magari non si tratta di un disco perfetto ma soltanto di un grande progetto (e non è assolutamente un fallimento per Luchè), ma è certamente un Album con la A maiuscola, scritto e diretto da un Artista con la A maiuscola.