È il 10 settembre 2019 quando, come un fulmine a ciel sereno, esce Rozzi, il banger d’esordio di un emergente grezzo, ruvido e grintosissimo. Il suo nome è Paky e di lì a poco diventerà il punto di riferimento dello street-rap italiano, grazie a una parola chiave che, ultimamente, sembra sempre più sconosciuta al rap italiano: credibilità.
Con la sua personalità grezza e senza filtri, il suo modo di rappare irregolare la sua scrittura istintiva e violenta, Paky è stato fin da subito etichettato come un rapper di “fango e polvere”, in una scena dove gli artisti hanno paura anche solo di sporcarsi i vestiti. Inoltre, i suoi versi crudi e sporchi, sputati – e non rappati – sui beat di Kermit, hanno reso la sua figura credibile e iconica e hanno consolidato, via via, uno stile assolutamente unico nel panorama italiano, basato su fotta, flow rabbiosi e sentimenti viscerali. Va detto con grande chiarezza: non esiste, in Italia, un altro rapper come Paky.
In un articolo sui singoli Blauer, Extendo e Bandito, qualche settimana fa, scrivevo queste parole a proposito del suo stile musicale:
Allo stesso tempo, però, va detto che lo stile unico di Paky, che è senza dubbio il suo grande punto di forza, è stato grandemente contestato e messo in discussione: se si analizzano i suoi pezzi con una lente d’ingrandimento esclusivamente qualitativa, va detto che sono pieni di errori tecnici di flow, delivery e di metrica e spesso la loro scrittura è irregolare ed estremamente semplice. Persino la strofa migliore della sua discografia, in Rari di Tedua, è sì in grado di far venire i brividi a qualsiasi ascoltatore, ma è allo stesso tempo basata su un’emotività istintiva e primordiale. Quando Paky scrive e rappa non mira certamente a colpire il cervello dell’ascoltatore, ma lo stomaco.
Le scelte discografiche di Paky, invece, sono per certi versi in completo contrasto con il suo stile musicale basato sull’istinto e sulla “violenza artistica”, perché ogni sua decisione è stata presa con un senso di profonda intelligenza da pianificatore, a differenza di quelle di tanti colleghi. Il tempismo sembra essere, in gran parte, la vera arma segreta di Paky: d’altronde si parla di un rapper che è stato in grado di aspettare ben tre anni e mezzo dal suo esordio prima di pubblicare un disco, in modo da consolidare, prima, il suo stile e il suo ruolo nella scena. Forse la strada gli ha insegnato anche quando bisogna colpire al momento giusto.
In ogni caso, il primo disco di Paky è finalmente arrivato: si intitola Salvatore ed è composto da diciassette brani per un totale di 46 minuti di musica, ma soprattutto è un grandissimo album d’esordio. Per recensirlo, però, il punto di partenza non può che essere ancora una volta l’intelligenza da pianificatore di cui si parlava prima: è impossibile non sottolineare l’estrema lucidità e addirittura la genialità con cui il CD è stato pensato nella sua struttura e nelle sue decisioni artistiche.
Infatti, Salvatore non è soltanto un album di grande qualità dalla prima all’ultima traccia, ma è un disco con una storia e una visione, che mira a colpire l’ascoltatore trasportandolo in un viaggio pensato con precisione e attenzione, che inizia con l’Intro e termina con la traccia conclusiva Bronx. In particolare, non si può non parlare con grande entusiasmo dell’Intro, perché la scelta di un brano del genere come apertura del progetto denota la stessa lucidità di cui si parlava in precedenza: è un vero e proprio manifesto della vita e della poetica di Paky e, in quanto tale, è la traccia perfetta per coinvolgere in pieno l’ascoltatore.
Prodotta da Night Skinny, l’intro di Salvatore è una traccia davvero stellare, in cui ogni barra “sa di vero e sputa vero” e soprattutto che racconta per intero, senza censure, la storia di vita del suo autore, fin dalle prime quartine:
Ho preso casa a Milano, ma ricordo che prima vivevo a Napoli
Stavo nel Monterosa in un cesso con due locali
Ora che il mio conto è roseo anche se ho pochi vocaboli
Non son bravo coi verbi e fatico a coniugarli
In classe coi figli del centro capii che non siamo uguali
Quando il compagno di banco ha qualcosa che tu non hai
La mia merenda a scuola aveva sempre nomi strani
Durante il cambio dell’ora guardavo dentro agli zaini
Ed è lì che realizzai, ero diverso dagli altri
Prof diceva: “Tu sei bravo, se solo un po’ ti applicassi”
Mia madre avrebbe voluto, invece, che mi diplomassi
Da una serie di versi del genere si possono davvero far partire tantissime considerazioni e in particolare vale la pena sviluppare due riflessioni:
- Paky è tendenzialmente, specialmente nei banger, un rapper sfrontato e provocatorio, ma, quando ha bisogno di raccontarsi davvero, il suo tono di scrittura cambia completamente. Quest’intro è composta da versi umili ma orgogliosi, che raccontano la povertà, il disagio e addirittura l’ignoranza. Si potrebbe addirittura dire che, per certi versi Paky abbia un approccio di scrittura trap, arrogante e ostentatore, negli esercizi di stile e un approccio di scrittura hip-hop nei brani conscious.
- Salvatore è, proprio come lasciano intendere queste prime barre, un disco di emozioni forti: racconta la frustrazione di un passato terribile di difficoltà economiche e sociali e la rivincita dell’artista di successo. Non si tratta di temi nuovi, anzi: è il più classico concept che si possa legare a un album rap, ma Paky ha avuto la personalità (e la storia) per caratterizzarlo in maniera vivida e originale e, soprattutto, la credibilità per poter parlare in un certo modo e di certi argomenti. Salvatore è un disco che ha alzato a tutti gli effetti l’asticella dello street-rap.
A proposito dell’intro, poi, bisogna riprendere in mano un discorso che avevo iniziato a sviluppare nello stesso articolo su Blauer ed Extendo fa che citavo in precedenza. Da Paky, un rapper così grezzo e che, citandolo, “ha pochi vocaboli e non è bravo con i verbi”, era davvero difficile aspettarsi un livello così alto di scrittura. Leggendo un suo testo conscious, infatti, sembra che abbia le idee chiarissime sulle emozioni che vuole trasmettere con i suoi versi e, in più, ha raggiunto un livello tecnico, in termini di metrica e incastri, assolutamente considerevole, come dimostra la seguente quartina:
Ora che vogliono tutti mangiar dal mio piatto
Ora che i miei pianti diventano d’oro e platino
Ho un patto con il diavolo, un altro con Jacopo Pesce
Uno che mi fa immortale, l’altro che il mio conto cresce
in cui anche l’ultimo verso, completamente sgrammaticato, sembra scritto con consapevolezza e cognizione di causa. In un brano di Paky non ci si stupisce se un verbo è coniugato in modo sbagliato perché, d’altronde, questo è perfettamente in linea con la sua identità grezza, popolare e di strada: è come se in un certo senso l’errore rafforzasse il concetto che esprime. Però, allo stesso tempo, non può stupire neanche il valore lirico, morale e umano della quartina immediatamente successiva:
Non spendo soldi in collane se mio fratello non riesce
A far mangiare il figlio ed arrivare a fine mese
Perché troppe le spese, preferisco portargli a casa la spesa
e dunque forse, per raccontare Salvatore, si può dire che è il disco che ha fatto scoprire al rap italiano la complessità di Paky.
Dopo quest’intro massiccia e piena di emozioni, l’ascoltatore è entrato ufficialmente nel “viaggio-Salvatore” e arrivano sei banger scoppiettanti, in stile “Rozzi/Tuta Black/Fendi Belt“, ma tutti diversi. Il primo è 100 Uomini, una frustata UK Drill prodotta dal direttore artistico del progetto, Drillionaire (un’altra scelta estremamente oculata di Paky è stata quella di coinvolgerlo per la realizzazione del progetto), in cui viene spiegata la scelta del titolo in un ritornello violentissimo:
Me la prendo con Cristo
Se sputo in cielo, non mi ritorna, gli resta sul viso
Tanto non mi salva, il mio salvatore è soltanto il mio disco
Vengo dall’inferno, ho dentro il demonio quando mi registro
E quando non registro
Poi, in rapida successione, arrivano Blauer, le muscolari No Wallet e Pascià, la scorrettissima Auto tedesca e il duetto Star con il fratello artistico Shiva, davvero ispiratissimo. Vale la pena spendere qualche parola a proposito di questi banger anche se – come chi ha ascoltato il disco avrà già intuito – raccontano solo una minima parte di Salvatore. Attraverso esercizi di stile “di bosseggiamento” del genere, che fino all’uscita del disco avevano composto la maggior parte della sua discografia, Paky ha consolidato la sua forza da rapper, confrontandosi con i beatmaker trap migliori della scena italiana (Sick Luke, Drillionaire, Andry The Hitmaker e Kermit) e dimostrando la sua nettissima crescita degli ultimi anni in personalità, consapevolezza, tasso tecnico e adattabilità al beat. Sono sei banger, ma soprattutto sei grandi ritornelli e sei grandi performance nelle strofe, al punto da potersi spartire un beat con Marracash. Salvatore inizia decisamente nel modo giusto.
L’ottava traccia del disco, però, è quella decisiva, è la grande chiave per interpretare il lavoro profondamente visionario di Paky e del suo team: è la title-track Salvatore. È un momento cruciale per gli ascoltatori del disco perché, dopo sei banger, si aspettano finalmente un traccia conscious, in grado di proseguire lo storytelling dell’intro e parlare direttamente con i loro cuori. Invece no: Salvatore è una skit, una traccia parlata, in cui un Paky visibilmente emozionato si lancia in uno struggente monologo in cui si racconta:
Il mio nome d’arte è Pakartas, perché non respiro più, come un impiccato. Mi piace la notte perché non fa rumore, è silenziosa, ascolta e non parla, un po’ come faccio io.
ma soprattutto racconta il suo disco. Prima, infatti, ho scritto che in 100 uomini il concept del disco veniva spiegato… Ecco, è una verità solo parziale. Nella skit Paky spiega che Salvatore è il nome di un suo zio deceduto in seguito a un incidente stradale, distratto proprio da una sua telefonata. Quel giorno sua madre ha perso un fratello, i suoi nonni hanno perso un figlio, suo cugino un padre e suo zia un marito. Un anno dopo la sua morte è arrivato il singolo Rozzi e l’artista, nella skit, quasi si commuove a confessare:
Credo che tutto quel successo, quella catena di avvenimenti e di coincidenze siano capitate per merito suo, mi sento come toccato dall’alto, come se fossi stato salvato, proprio come il significato del suo nome: Salvatore.
Questa parte del monologo, emozionantissima e da brividi, racconta quindi quella serie di avvenimenti drammatici che, in un modo o nell’altro, hanno portato Vincenzo Mattera a farsi Pakartas e Pakartas a farsi rapper di successo, fino all’album di esordio Salvatore. La parte finale della skit, invece, ha un ruolo cruciale nell’economia del disco e rappresenta una soluzione creativa estremamente innovativa ed efficace: spiega la struttura del disco all’ascoltatore.
Ho voluto chiamare il mio primo disco come lui perché mi sentivo di doverglielo, in questo progetto c’è tutto il dolore che ho provato e la rabbia che ancora provo. Salvatore è lo specchio della mia anima, ho deciso di dividere il disco in due parti con questa traccia, la prima parte contiene i pezzi più leggeri e banger, la seconda, invece, quelli più sentiti e conscious. Una dove c’è luce, l’altra dove c’è solo buio, una in cui sono vivo e l’altra in cui non lo sono.
La scelta di spiegare a chi ascolta il modo in cui l’album è stato concepito è davvero visionaria, perché indica in maniera assolutamente incontrovertibile la direzione dell’ascolto. In un certo senso è come se Paky avesse deciso di auto-intervistarsi, concedendosi l’esclusiva e dando al pubblico le informazioni assolutamente necessarie sul disco. Con una skit del genere, non ci può essere pericolo di equivoci. Inoltre, anche la decisione di posizionare Salvatore a metà disco è di assoluta intelligenza: è come se catalizzasse l’attenzione un pubblico già convinto dai banger sulla seconda parte, quella più profonda, intima e ricercata.
La seconda parte del disco, dunque, aperta dalla traccia Salvatore, è semplicemente straordinaria nella sua forza emotiva: propone una serie di canzoni dall’impronta estremamente hip-hop, in cui Paky ha la possibilità di sfogarsi e raccontarsi, fra vecchie ferite mai del tutto rimarginate.
Si parte dalla drammatica Quando piove, la cui prima strofa rappresenta forse il vero picco lirico del disco, e si prosegue con le autobiografiche Vivi o muori, Vita sbagliata e Giorno del giudizio e le street-love song “di sangue versato” Comandamento e Mi manchi, per poi chiudere con Storie tristi, Mama I’m a Criminal e Bronx, già edite ma di assoluta qualità.
Per comprendere la magia della scrittura di Paky, capace di proiettare all’interno della sua vita e dei suoi flashback basta, appunto, ascoltare la prima strofe di Quando piove:
Ah, ne avevo dieci quando ho cambiato città
A quindici anni ho perso la verginità
Avevo paura quando ma’ piangeva
Papà la picchiava forte a mani nella camera
Non so spiegarti ancora a dir la verità
Il perché, quando mi è capitato, non andavo di là
La verità, non sarei riuscito a fermarlo
Quando mi fermai a guardarlo aveva perso la lucidità
Io la mia mobilità davanti a quella crudeltà
Mia mamma non si meritava tutta quella merda là
Ricordo che a Gardaland mi portò per perdonarlo
Tutt’oggi ancora non l’ho fatto
Si tratta di un testo di un coraggio sensazionale, perché non ci sono aggettivi per descrivere la scelta di raccontare avvenimenti del genere di fronte a tutta l’Italia e, in un certo senso, di renderli eterni in un disco. Bisogna amare davvero tanto l’hip-hop e considerare la scrittura come una terapia per tuffarsi in un testo del genere, ma, soprattutto, per rendere immortale un pezzo come Quando piove, servono quegli attimi di ispirazione da cui nascono i capolavori. Questi brani dimostrano quanto Paky sia un artista liricamente molto ispirato: i suoi testi “sanno di vero e sputano vero”, le sue emozioni arrivano dalla prima all’ultima e la sua forza espressiva è massima.
Probabilmente, a livello tecnico, non lo si può definire un liricista, ma la seconda parte di Salvatore è di coscious rap ed è senza ombra di dubbio scritta in modo brillante. Nonostante i pochi vocaboli e i verbi coniugati male, Paky è l’ennesima dimostrazione di una grande verità: nel rap ciò che davvero conta sono le emozioni e il grande scrittore è colui che sa trasmetterle. Inoltre, bisogna segnalare fra le note più splendenti della seconda parte di Salvatore: una grande raffinatezza e varietà strumentale, la voglia di mettersi in gioco e intonare dei ritornelli con l’autotune (Storie Tristi, Vita sbagliata e la stessa Quando piove) e l’inserimento – da grande artista – di varie citazioni ai Co’Sang fra le lyrics dell’album.
Un’altra gustosa chicca, di cui non si può fare a meno di parlare, è la scelta assolutamente contro-intuitiva di inserire Marracash nella parte banger e uno strepitoso Guè nella parte conscious di Salvatore. Il 99% della scena, potendo contare su featuring del genere, li avrebbe posizionati in maniere opposta. È una chicca che dimostra la volontà di Paky di essere unico ed è l’ennesima dimostrazione di quanto Salvatore sia stato realizzato con l’attenzione e la cura del dettaglio di chi ama davvero la sua arte.
Forse Salvatore non è solo il disco che ha fatto scoprire al rap italiano la complessità di Paky, ma è anche il disco che ha fatto scoprire al pubblico che oltre quel muro di “fango e polvere” c’era davvero tanto altro.
Per riassumere, dunque, i punti chiave della recensione di Salvatore, si deve innanzitutto dire che si tratta di un grande disco di strada, fondato sulla credibilità del suo autore, sulla forza espressiva dei suoi flashback e sulla loro capacità di trascinare l’ascoltatore all’interno del racconto, emozionando e coinvolgendo. L’album, più nello specifico, è valorizzato dalla sua doppia-anima, perché non c’è dubbio che si tratti, nella prima parte, di un grande street album trap e, nella seconda, di un grande album conscious-rap. Una struttura del genere, intelligente e funzionale, ha reso Salvatore un viaggio straordinario per l’ascoltatore, ma soprattuto un progetto originale e unico.
A livello musicale, poi, si tratta di un progetto gestito in maniera superlativa da Drillionaire, tanto nella prima parte quanto nella seconda, e sviluppato attraverso la collaborazione di Paky con produttori stellari come Kermit, Night Skinny, Sick Luke, Andry the Hitmaker, 2nd Roof e lo stesso Drillionaire. Ognuno di questi producer ha saputo impreziosire il disco con strumentali di grande livello, ritagliandosi uno spazio importante nella storia di Paky, proprio come i featuring, tutti ben contestualizzati e applicati, dagli ispiratissimi Shiva, Geolier e Guè, alle prese con strofa e ritornello, fino a un dinamico Marracash e a un’insolita ma riuscita accoppiata Mahmood–Luchè.
Inoltre, puntando il focus sulle performance di Paky, bisogna dire che Salvatore è un disco privo di filler, in cui ogni pezzo ha uno scopo e un precisa collocazione al suo interno e, soprattutto, che la sua crescita tecnica risulta estremamente apprezzabile. Già in Blauer si evidenziava una consapevolezza di gran lunga maggiore rispetto ai banger precedenti, ma con l’uscita dell’album non c’è più alcun dubbio relativo alla maturazione artistica del rapper negli ultimi due anni e mezzo. In Salvatore non ci sono strofe sottotono come lo sono state Sport RMX e Tik Tok RMX, ma c’è solo il meglio di Paky, in termini di ritornelli, di metrica, di flow scelti e di forza espressiva dei versi.
La grande dimostrazione di bravura del rapper di Rozzi, però, è probabilmente da ricercare nella capacità che ha avuto di alzare il tasso tecnico senza “pulire” il suo stile. Paky è rimasto umile, grezzo e credibile nonostante la cura del dettaglio del suo CD. Probabilmente l’aggettivo “raffinato” è piuttosto incompatibile con la sua personalità artistica, ma le citazioni ai Co’Sang, le scelte dei beat e delle parole in brani come Quando piove e Mi manchi e la decisione di gestire in questo modo i featuring di Guè e Marra sono dimostrazioni, quantomeno, di ricercatezza. Paky ha realizzato, in sostanza, un disco perfettamente coerente con il suo DNA, ma che risulta maturo e assolutamente superiore a tutto ciò che aveva proposto in precedenza. Ascoltando strofe come Rari di Tedua, si poteva scorgere il potenziale espressivo di Paky, ma oggi, con l’uscita del disco, è assodato che la sua scrittura sia una garanzia, proprio come la sua musica.
In conclusione, dunque, non si può che annoverare Salvatore fra le stelle più splendenti del 2022: è senza dubbio uno degli album migliori fra quelli usciti negli ultimi mesi e impreziosisce un’annata che sembra davvero in grado di regalare tanto al rap italiano, fra progetti usciti come Virus di Noyz Narcos e Oro Blu di Bresh e progetti in arrivo come Caos di Fabri Fibra e Sirio di Lazza. Tornando a Paky, però, è assolutamente evidente quanto la sua crescita sia stata sana e organica e quanto si sia impegnato per pubblicare un disco così curato nel dettaglio. Salvatore è un progetto sentito, perché dedicato a una persona fondamentale, e a cui l’autore è legato con il sangue, in modo quasi mistico; non poteva che essere pubblicato solo se Paky ne fosse stato convinto al 100% e così è stato. Il risultato è stato brillante perché Salvatore è davvero un grande album.
Un pensiero riguardo “Salvatore di Paky – La recensione del disco più atteso dalla strada”