In occasione dell’uscita del suo libro “TRAP GAME. I sei comandamenti del nuovo hip hop”, abbiamo chiamato Andrea Bertolucci per una chiacchierata a proposito del suo progetto, ma più in generale a proposito di rap italiano.

Intervista a cura di Sergio Mattarella:
Sergio: Ciao Andrea! È un piacere conoscerti e potere regalare al pubblico di Raphaolic questa chiacchierata, in cui affronteremo i temi raccontati nel tuo libro, ma anche a proposito dello “stato di salute” della scena rap italiana del 2020.
Andrea Bertolucci: Ciao Sergio! Piacere mio. Abbiamo tantissimi argomenti di cui parlare!
Sergio: Sin dalle prime pagine del tuo progetto ho trovato spunti interessantissimi, anche di dettaglio, come la citazione al tone of voice del primo capitolo. Innanzitutto, infatti, volevo farti i complimenti per il tuo libro e rivolgerti i migliori auguri, perché l’ho trovata un’opera brillante che chiarisce tanti falsi miti all’ascoltatore medio, ma anche perché apre porte a opinionisti come me, essendo il primo libro che porta il pubblico mainstream in libreria.
Andrea Bertolucci: Ti ringrazio per i complimenti ed effettivamente ci tengo a dire che il mio intento era proprio questo: mettere in connessione due pubblici molto lontani. Da una parte c’è il ragazzino che ascolta la trap e può apprezzare tranquillamente il libro, anche per i “featuring” dei rapper che hanno partecipato al progetto, e dall’altra il suo genitore che può capire meglio la cultura.
Sergio: Secondo me, fra l’altro, noi opinionisti, giornalisti e scrittori stiamo raggiungendo un’importanza mediatica sempre maggiore: il commento alla musica sta diventando tanto significativo e rilevante quanto la musica che si ascolta… Per questo volevo chiederti di raccontare “Trap Game: I sei comandamenti del nuovo hip-hop” ai lettori di Raphaolic, dalla sua genesi al tuo metodo di lavoro.
Andrea Bertolucci: Guarda, tutte le collaborazioni del progetto con gli artisti meriterebbero un racconto, perché con ognuno degli artisti ho un rapporto diverso, che sia di amicizia o prettamente professionale. La “miccia” è stata accesa da Lazza, ospite del primo capitolo, quello relativo ai soldi: qualcuno mi ha chiesto: “Perché non Sfera Ebbasta?” e io ho sempre risposto che avevo, dal primo momento, Lazza, che si prestava perfettamente al contenuto. Dunque, ripercorrendo i passi del libro, ti racconto che ho iniziato a ragionarci dopo la drammatica vicenda di Corinaldo, che sicuramente ricorderai… I media hanno, da un lato, raccontato la cronaca, ma dall’altro hanno raccontato la cultura in modo ostile, confuso e spesso contro-informativo. Faccio una premessa: ti parlerò sempre di cultura trap, durante quest’intervista, e non di musica trap, perché a mio parere la musica coglie solo un aspetto, il principale ma non l’unico, del movimento in questione. Comunque, in quel periodo ho notato episodi mediatici fuorvianti e talvolta assurdi, come le dichiarazioni di un prete-esorcista contro Sfera Ebbasta. Da lì ho iniziato a ragionare su un libro che potesse illustrare in modo chiaro e veritiero questa cultura, ma non volevo portare avanti un progetto banale, perché come hai colto tu prima volevo catturare anche un certo tipo di pubblico generalista e adulto. Per realizzare un progetto che soddisfacesse al 100% queste esigenze ho lavorato un intero anno, coinvolgendo anche ospiti di un certo calibro, come Lazza, Vegas Jones, Ernia e Ketama126.
Sergio: In questi dodici mesi, come si sono distribuite queste collaborazioni?
Andrea Bertolucci: Il primo ospite, come ti raccontavo, è stato Lazza e l’ultimo, che ha chiuso il progetto, è stato Ketama, per cui ho incontrato delle difficoltà, anche banalmente per l’argomento controverso che abbiamo trattato, ovvero le sostanze. Era l’unico ospite che non conoscevo personalmente e chiaramente non è stato facile convincerlo a raccontarsi in un libro, anche se a conti fatti credo che sia uno dei capitoli più intensi e nuovi: è la prima volta che Ketama racconta l’argomento con queste modalità.
Sergio: Un aspetto che ho ammirato molto del libro, a proposito modalità, è il tuo tono imparziale e didattico. Dalla prefazione ai singoli capitoli, passando per il racconto di alcuni dissing, riesci sempre a non giudicare e a non esporti, descrivendo la cultura con una penna innamorata dell’argomento ma distaccata. Mi racconti questa scelta?
Andrea Bertolucci: È proprio come dici tu, ho cercato un approccio che potesse risultare credibile a qualsiasi tipo di lettore. Ti racconto una curiosità: a libro terminato, l’editore, sottolineando questo tipo di racconto così imparziale, mi ha invitato a scrivere una conclusione dal tono più personale, in cui ho avuto la possibilità di dare la mia opinione. In realtà, comunque, credo che dal mio “approccio imparziale” si possa comunque leggere questo sotto-testo: si può criticare la cultura trap ma, come ogni cosa, bisogna conoscerla e averla approfondita, altrimenti si cade certamente in errore.
Sergio: La situazione-Covid come ha condizionato la stesura del progetto?
Andrea Bertolucci: Da un lato il Covid ha favorito la realizzazione del mio libro, perché mi ha messo a disposizione più tempo per scrivere, ma dall’altra mi ha reso più difficile la collaborazione con gli artisti.
Sergio: A questo proposito, con quali modalità hai coinvolto ospiti come Lazza, Vegas Jones e Ernia?
Andrea Bertolucci: Alcuni, come Ketama, sono stati coinvolti a distanza, mentre con altri artisti ci sono stati degli incontri fisici. Per esempio con Maruego, un mio caro amico, la collaborazione è stato molto spontanea e informale.
Sergio: Si vede che sei molto affezionato a quel capitolo…
Andrea Bertolucci: Infatti lo ribadisco ogni volta che ne ho la possibilità: Maruego è stato il primo a portare un certo tipo di sound in Italia e a realizzare il primo disco trap della nostra scena, nel 2014.
Sergio: In questo momento come vedi il ruolo e la posizione di Maruego nella scena?
Andrea Bertolucci: Credo che sia arrivato troppo presto: essere stato il primo lo ha, paradossalmente, costretto a bruciare le tappe. Gli artisti che sono arrivati dopo, nel 2016, come Sfera, Ghali e la Dark Polo, si sono confermati fino al 2020 ad alti livelli, mentre Maru, esploso con due anni di anticipo, ha visto una discesa in termini di hype. Chiarisco: non in termini di bravura, perché i suoi progetti più recenti sono di grande qualità e credo che abbia tantissimo da dare alla nostra scena, anche nello stesso 2021.
Sergio: Emis Killa, in una delle due prefazioni al tuo libro, riconosce alla trap un’indipendenza di genere e di cultura dal rap, nonostante la linea di confine sia sottile e spesso invisibile. Quando ho iniziato a scrivere di rap, nel 2018, cercavo spesso di mettere in crisi la “distinzione rap-trap” facendo i nomi di Lazza e Vegas, perché nei loro progetti c’erano beat trap e beat di altro stampo, a volte usavano l’autotune e altre volte no e avevano dei riferimenti sia moderni sia canonici. Allo stesso tempo, come afferma giustamente Killa, non si può non riconoscere una netta differenza fra i rapper di ieri e alcuni trapper di oggi. Secondo te, dove bisogna tracciare la linea di confine fra i due generi?
Andrea Bertolucci: La linea di confine, è esclusivamente sonora: come sai anche tu la trap si distingue non per gli argomenti affrontati nelle canzoni né per l’attitudine, ma per il sound e quindi per gli 808, per l’utilizzo dell’autotune in una certa maniera. Tuttavia, non posso non riconoscere alla trap una cronologia precisa e proprio per questo ho coinvolto una figura come Emis – che poteva essere anche Guè Pequeno o Gemitaiz – che ha surfato proprio su questa linea di confine e sulla trasformazione del genere. Killa è un artista che ha vissuto il pre-trap e il post-trap e ha saputo modernizzarsi ed essere sulla cresta dell’onda senza farsi travolgere. È interessante come sottolinei che, rifiutando l’accezione politica di un certo tipo di rap, la trap abbia sdoganato le tematiche e i tabù che racconto nel libro.
Sergio: A proposito di questo, ti cito un passaggio del primo capitolo del tuo libro, quello relativo ai soldi, in cui spieghi che due parole chiave per capire l’attitudine trap sono individualismo e provocazione. Sfera Ebbasta ha mescolato questi due ingredienti per l’album forse più iconico della musica trap in Italia, Rockstar, e l’anno scorso, invece, ha abbandonato la provocazione, e in una certa misura le sonorità trap, per iniziare un percorso che strizza l’occhio al pop. Ti chiedo: la scena è satura di individualismo e provocazione e siamo alla fine di un ciclo? La musica urban andrà, negli anni prossimi, in un’altra direzione, abbandonando un certo tipo di tematiche?
Andrea Bertolucci: Ti dico la mia: secondo me vedremo una virata, ma questa non coinvolgerà tutti gli artisti della scena italiana. Qualcuno, però, cercherà effettivamente stimoli e tematiche nuove, anche per sopravvivere a un mercato estremamente competitivo, come ha fatto Ghali e come ha fatto Achille Lauro. Quest’ultimo, in particolare, è un mio amico e gli voglio bene, ma vederlo fare gli swing a Sanremo mi mette un po’ tristezza… – ride – Secondo me altri rapper cercheranno soluzioni artistiche crossover, ma allo stesso tempo vedremo emergere nuove scene ancora più di spessore, specialmente in chiave drill.
Sergio: Colgo l’occasione, allora, per chiederti un parere sulla scena che sta fiorendo a San Siro, a mio parere ricca di talento e di potenziale.
Andrea Bertolucci: Apprezzo tantissimo la scena di Z7 e sto avendo la fortuna di poter collaborare con i ragazzi in prima persona. È un piacere vedere quanto tengano all’esplosione della scena unita quanto ai loro percorsi solisti e sono sicuro che quando emergeranno – e sta già accadendo – dei singoli nomi, tireranno una corda ai loro compagni per farsi raggiungere sulla vetta, al contrario di quanto è accaduto ad altri artisti, come lo stesso Ghali con il suo ex collettivo. Mi entusiasma molto il loro sentimento di aiuto reciproco, che credo abbiano sviluppato crescendo in una realtà complicata, e rivedo un po’ il percorso dei ragazzi di Z4. Un’altra grossa novità, per il panorama italiano, è la scena femminile capeggiata da Madame, anche se mi risulta difficile considerarla rapper…
Sergio: A questo punto voglio parlare con te dell’argomento “rap femminile” più nello specifico, anche perché tu stesso gli dedichi un capitolo intero del tuo libro, in cui coinvolgi Beba, un’ospite particolarmente ispirata. Ti faccio notare, però, quanto le nostre rapper facciano fatica a emergere con la musica: non è ancora uscito, infatti, il disco di una rapper italiana! Beba nella tua opera afferma giustamente che il rap femminile sia ormai credibile e sdoganato, ma allora come si spiega questa difficoltà?
Andrea Bertolucci: Secondo me per capire le loro difficoltà servirebbe puntare la lente d’ingrandimento su ciò che succede dietro le quinte, su come funzionano le major e l’industria musicale in generale. La carriera di un’artista non dipende solo dal suo talento, ma dalle casualità di un percorso, dai management, da operazioni di marketing e da collaboratori efficienti, e quindi a volte si vengono a creare situazioni per cui il rapper più famoso non è necessariamente il più capace e viceversa. È vero, quindi, che Beba, Chadia, Priestess e tante altre artiste sembrano non concretizzare il loro talento, ma spesso la colpa è da attribuire in gran parte alla discografia italiana e al comportamento della major. Ho scelto di collaborare con Beba, nel mio libro, perché ha lo standing e la cultura per risultare credibile e, soprattutto, ha vissuto sulla sua pelle la “rivoluzione trap”. Nel capitolo sulle donne, il mio obiettivo è far comprendere al lettore che la cultura trap sia molto meno maschilista di quanto lo fosse il rap in precedenza e Beba effettivamente lo conferma con la sua testimonianza. Il fatto che, poi, non abbia il riscontro dei suoi colleghi maschi è vero ed è un problema su cui interrogarsi, anche perché in America negli ultimi anni i numeri delle female rapper sono saliti in maniera evidentissima…
Sergio: Nel 2018 Cardi B ha vinto un Grammy!
Andrea Bertolucci: Esatto! E il 2019 è stato l’anno con più rapper donne nella Top 100 di Billboard! Saweetie, Iggy Azzalea, Nicky Minaj, Cardi B… Secondo me è questione di anni per vedere questa trasformazione anche in Italia.
Sergio: Secondo me già con il disco di Madame, in uscita quest’anno, potremmo vedere dei movimenti interessanti. Secondo te no?
Andrea Bertolucci: Non credo perché, come accennavo prima, faccio fatica a inquadrarla come una rapper. Le riconosco una grande intelligenza nell’essersi inserita in un “vuoto di rappresentanza“, ma credo che il racconto mediatico della Madame-rapper sia poco coerente con la musica che pubblica, che è prettamente pop. È una brillantissima scrittrice di musica, ma non credo sia un’artista pronta a rappresentare il rap italiano a livello nazionale.
Sergio: Dalla sua parte ha la giovanissima età e, di conseguenza, un potenziale praticamente infinito…
Andrea Bertolucci: Per me però non è una scusante. Se una diciannovenne non è pronta può entrare nella scena quando avrà ventun’anni. Secondo me, quando un artista pubblica un disco, il metro di giudizio non può cambiare in base alla sua età.
Sergio: Molto chiaro. Esaurito quest’argomento, ti porto sul prossimo: il blocco, a cui dedichi il secondo capitolo del tuo libro, coinvolgendo una personalità stilisticamente molto affascinante come Vegas Jones. Perché, secondo te, il blocco è un elemento cardine della cultura trap al pari di soldi, sostanze e stile?
Andrea Bertolucci: Il blocco è il luogo, geograficamente parlando, dove la trap ha origine e volevo creare, nel capitolo, un filo che collegasse tutte le periferie del mondo, dalle trap-houses di Atlanta fino a quelle di Cinisello. Una città come Milano è contemporaneamente troppo grande e troppo piccola… Prima parlavamo di San Siro che è soltanto una delle tantissime scene che convivono al suo interno e quindi piuttosto che di città, oggi, si parla di quartieri, come lo è anche Ciny. Attraverso la storia biografica di Vegas Jones, il mio capitolo racconta quindi una tematica più generale. Mi piace sempre far notare come l’hip hop nasca negli stessi luoghi della trap, ma all’aperto (per le strade, nei cosiddetti block party). Al contrario, questa nuova cultura viene alla luce al chiuso, all’interno delle note trap-houses e, per qualcuno, quest’origine “claustrofobica” della trap spiegherebbe addirittura la cupezza e l’oscurità dei suoni della sua musica.
Sergio: Come racconti nel tuo libro, oltre alla scena milanese, oggi, sono presenti diverse altre scene molto rigogliose, come quella genovese, molto affezionata al cantautorato, quella romana, influenzata in maniera significativa dall’indie, e anche quella napoletana, che negli ultimi anni ha sfornato dei talenti purissimi come Geolier e Nicola Siciliano. A mio parere, però, in Italia ci sono anche delle regioni in cui la cultura hip hop ha avuto difficoltà a essere recepita. Secondo te come mai?
Andrea Bertolucci: È vero che in alcune parti d’Italia la cultura hip hop – e di conseguenza quella trap – abbia fatto fatica a raggiungere gli ascoltatori e credo che siano quelle più lontane dalle metropoli come Milano, Roma e Torino. Me ne sono reso un paio di estati fa in Puglia: era l’anno dell’esplosione di Massimo Pericolo, la canzone del momento era 7 Miliardi e a Milano si parlava solo di lui! Stavo tornando da una serata con due amici pugliesi e, in macchina, gli faccio ascoltare proprio 7 Miliardi… Mi guardano entusiasti e mi fanno: “Ma chi è questo? È fortissimo!“, e io ero sbalordito, perché era il cantante del momento! Lì ho capito che, in alcune zone d’Italia, gli artisti magari esplodono con 2-3 mesi di ritardo rispetto a Milano. Credo che la diffusione della musica segua un percorso piuttosto naturale, dalle metropoli fino al resto d’Italia…
Sergio: È una questione di collegamenti quindi!
Andrea Bertolucci: Sì! Anche le radio, per esempio, svolgono un ruolo di collegamento molto significativo. La radio pugliesi hanno iniziato a passare brani rap e trap solo negli ultimi anni.
Sergio: Visto che siamo in tema di collegamenti, mi collego al tema della lingua, che tu affronti nell’ultimo capitolo del tuo libro. Prima ho citato Famoso, un progetto che hai sicuramente seguito da appassionato del genere e che si è posto una missione molto ambiziosa, la cosiddetta “missione worldwide”: rendere Sfera Ebbasta un artista rilevante non soltanto a livello nazionale, ma a livello mondiale. Secondo te la scena europea sta effettivamente diventando una minaccia per quella americana?
Andrea Bertolucci: Sì, ma non grazie alla scena italiana… – ride – Nel senso: alcuni nomi europei stanno diventando delle superstar mondiale, ma sono prevalentemente rapper francesi e britannici, agevolati dal fatto che le loro lingue siano parlata in tutto il mondo. La ragione è esclusivamente storica: molte nazioni, in Nordafrica, sono state colonie inglesi o francesi. A mio parere, inoltre, il “virus” della trap si è diffuso in Europa non tanto a partire dall’America ma dalla Francia ed è per questo che riconosco una credibilità maggiore ai ragazzi di 7 Zoo piuttosto che a chi rincorre un immaginario americano. Il quartiere San Siro è più vicino, geograficamente e non, alle banlieue di Parigi piuttosto che alle trap-houses di Atlanta. Quando Sfera Ebbasta si propone come rappresentante della trap nel mondo, secondo me, ha una credibilità molto forte finché non valica i confini europei. In America finisce per essere l’ultimo degli artisti…
Sergio: Però forse era proprio questo l’obiettivo di Sfera con Famoso: essere l’ultimo in America ma piantare la sua bandiera, essere presente!
Andrea Bertolucci: Sì, però realizzare dei featuring con figure come Offset e Future, senza che loro ti considerino e forse senza che ti conoscano, mi sembra una mossa di marketing fine a se stessa.
Sergio: Però, dall’altro lato, J Balvin partecipa al video ufficiale di Baby e lo pubblica sul suo canale YouTube e Diplo, Lil Mosey e Steve Aoki ricondividono i suoi brani…
Andrea Bertolucci: Secondo me non basta a renderlo un rappresentante credibile dell’Europa in America, ma anzi penso che dovrebbe consolidare il suo ruolo di spessore nel nostro continente. In Europa, comunque, le figure di riferimento ci sono: basti pensare ai PNL che, senza interviste e svelando poco di sé, sono diventati colossi della musica e sono riusciti a ottenere il permesso di realizzare un video ufficiale sulla Torre Eiffel. I Migos, per esempio, non avevano potuto girare un video lì… Sfera Ebbasta, con Rockstar, si era imposto con un’altissima credibilità anche grazie ai featuring europei di livello (nrd Miami Yacine, Tinie Tempah nell’International Version, Lacrim e SCH nella repack). Nel 2020 ha inseguito il sogno americano piuttosto che confermare la sua posizione di rilievo in Europa… La mia paura è che lo abbia fatto più per sentirsi forte in Italia che per un’effettiva missione worldwide.
Sergio: Trovi più centrate le sue connessioni con il mondo latino, come quella con J Balvin?
Andrea Bertolucci: Sì, le sue collaborazioni con i Sudamericani mi piacciono, seguono il trend molto moderno della Latin Trap. J Balvin è un ottimo artista e ha collaborato anche con una delle mie cantanti preferite del momento, ovvero Rosalía. Capisco molto più il featuring con lui che quelli con Future e Offset, che fra l’altro surclassano Sfera com’è logico che sia, proprio perché sono due mostri sacri.
Sergio: Mi allaccio a uno degli ultimi argomenti che volevo affrontare in questa chiacchierata. Il tuo libro racconta la cultura trap enfatizzandone gli elementi che la hanno caratterizzata maggiormente negli ultimi cinque anni. Secondo te, però, negli ultimi periodi, la cultura non sta venendo un po’ alla volta snaturata e censurata, come accade spesso ai generi musicali quando diventano mainstream?
Andrea Bertolucci: Sì, secondo me questa è una situazione che si sta verificando: spesso succede quando la musica incontra la realtà delle major e gli artisti si confrontano con un pubblico di massa. Una radio non passerà mai CC della Dark Polo Gang o Visiera A Becco di Sfera Ebbasta, ma magari può considerare brani come Cambiare Adesso o Bottiglie Privè.
Sergio: Questa “trasformazione pop” è un’opportunità o un rischio?
Andrea Bertolucci: Io la considero più un rischio: non posso immaginare un artista come Massimo Pericolo censurare la propria arte e scendere a compromessi con una major, ma forse per qualcuno può essere anche un’opportunità.
Sergio: Per Ernia forse è stata un’opportunità, no?
Andrea Bertolucci: Ernia però è sempre stato un duca! – ride – Ha mantenuto una coerenza e una cifra stilistica estremamente riconoscibile. Capisco meno gli artisti che passano da immaginari di un certo tipo a fare musica per bambini.
Sergio: Per esempio Shiva è un artista che sta un po’ subendo questo snaturamento del genere secondo me.
Andrea Bertolucci: Sì, è vero! Secondo me però potrebbe rilanciarsi proprio perché – lo dicevamo prima a proposito di Madame – si tratta sempre di ragazzi. Sulla sua carriera ha pesato, secondo me, la volontà di pubblicare troppi progetti che poteva distribuire meglio nel tempo. Torno sempre all’esempio dei ragazzi di Z7: sono artisti che, passati 8 mesi da Louboutin, ancora non hanno pubblicato un CD!
Sergio: Quindi siamo d’accordo che sia un rischio lo snaturamento della trap?
Andrea Bertolucci: Direi di sì. Vedo che linguisticamente si sta verificando un vero e proprio appiattimento, anche a causa di Tik Tok, e questo è preoccupante specialmente se diventa la normalità. Quando è uscita Mmh ha ha ha di Young Signorino, sono rimasto colpito perché rappresentava qualcosa di futuristico e di paradossalmente divertente. Se però escono solo canzoni come quella, diventa un problema. – ride –
Sergio: Quindi torniamo un po’ al discorso di partenza di questa chiacchierata, ovvero che il rap italiano vedrà nei prossimi mesi una virata alla ricerca di nuovi stimoli!
Andrea Bertolucci: Quello che sembra mancare in questo momento alla scena è un reboost forte: un artista innovatore che cambi le regole e che travolga la scena con il suo stile.
Sergio: Potrebbe essere Tedua con La Divina Commedia?
Andrea Bertolucci: Mi piace tantissimo Tedua e non vedo l’ora che esca, ma abbiamo già sentito ciò che aveva da dire. Credo che La Divina Commedia possa essere un’onda travolgente per la sua carriera, ma non per l’intera scena. Secondo me l’intera scena di San Siro è estremamente promettente, specie se analizzata nel modo giusto. Immagina guardare la scena dall’alto un palazzo di Piazza Selinunte: vedresti un ambiente che ricorda le periferie parigine e il film L’Odio di Kassovitz. Sono originali e fanno della commistione fra le culture e gli stili il loro punto di forza, perché, mescolando le origini marocchine di Neima e Sacky, quelle peruviane di Vale Pain e il sogno americano di Rondo, riescono a dare vita a uno stile nuovo.
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